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“La proprietà non appartiene all’uomo ma è per l’uomo”. Inizia così, con una citazione dai sermoni di San Bernardino, il nostro incontro con Enrico Corsi dell’Azienda La Cura di Massa Marittima (Gr), che non a caso ha chiamato “Il Predicatore” lo splendido vino dolce ricavato da uve Merlot appassite al sole in modo naturale, scegliendo per l’etichetta la riproduzione di una predica di San Bernardino in Piazza del Campo a Siena” dipinta da Sano di Pietro nel XV secolo.
La sua è un’azienda familiare e antica, la cui filosofia produttiva è strettamente legata alla cultura contadina ma con tendenza alla sperimentazione e approccio ecologico alla lavorazione del suolo e delle vigne (La Cura produce tra l’altro energia elettrica, che sfrutta per le proprie attività, attraverso un impianto fotovoltaico di 1 MW di potenza). Ed un forte richiamo all’etica del santo francescano, che lodava il lavoro degli imprenditori onesti e giustificava la proprietà privata solo se utilizzata per rendere un servizio a tutta la comunità.
L’occasione è la presentazione a Marsiglia del libro “Un’Itàlia, 150 piatti 150 vini 150 territori”, il risultato dell’iniziativa ideata da SapereSapori e Città del Vino con il patrocinio dell’Itinerario Culturale Europeo Iter Vitis – Les Chemins de la Vigne (www.itervitis.eu), per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Su invito dell’Istituto Italiano di Cultura di Marsiglia, città designata per il 2013 come Capitale Europea della Cultura, il 18 dicembre scorso al pubblico intervenuto presso la prestigiosa sede di rue Fernand Pauriol è stato raccontato il percorso di raccolta e selezione delle numerosissime ricette arrivate da ristoranti, agriturismi, chef, pro loco, comuni, strade del vino e comunità montane, e abbinate a vini rigorosamente italiani, scegliendoli tra quelli premiati alle ultime tre edizioni de La Selezione del Sindaco, il Concorso Enologico Internazionale organizzato ogni anno dall’Associazione nazionale Città del Vino.
Come già avvenuto nel corso delle altre presentazioni del progetto (Udine, Volta Mantovana, Macerata Campana e Bruxelles), l’incontro è stato coronato da una degustazione di piatti e vini citati nel libro con una particolare attenzione all’enogastronomia della Toscana, a conclusione dei due mesi di celebrazioni che l’IIC di Marsiglia ha dedicato a questa regione italiana.
Pecorino, finocchiona e zuppa di cavolo nero sono stati accompagnati dall’olio e dal vino offerti da Corsi, che è intervenuto personalmente a presentare il territorio di Massa Marittima e ad illustrare i suoi prodotti raccontando storie che hanno incantato la platea marsigliese.
La Cura nasce nel 1968 quando Andrea Corsi acquistò un’azienda incentrata su orticoltura e cerealicoltura. Costretto da una normativa della Provincia che lo obbligava a tenere una vigna per essere classificato come agricoltore, Andrea ne impiantò subito 2 ettari. Oggi gli ettari coltivati a vigneto sono 12 e si trovano nel cuore della denominazione Monteregio di Massa Marittima, nella fascia delle cosiddette “Colline Metallifere”. Le principali varietà allevate sono Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah, Ansonica, Vermentino, Malvasia, Trebbiano e Chardonnay, per una produzione annua complessiva di 30mila bottiglie.
Ma la storia di famiglia che riguarda il vino inizia molto prima, risale ai primi del ‘900 quando il nonno di Andrea che si chiamava come lui – nonno Andrea, nonno ‘Trea – produceva circa 100 ettolitri di vino che per l’epoca erano una gran quantità e lo distribuiva a km 0 perchè vendeva tutto a bicchieri nella vineria di casa, in paese. Era un uomo attento al suo lavoro, come dimostra l’ebulliometro di Malligand, lo strumento tutto di ottone con cui misurare il grado alcolico, ancora nelle mani di Enrico, il pronipote. Poi venne l’epoca della filossera che bruciò tutte le vigne, costringendo nonno ‘Trea ad iniziare daccapo con un’altra azienda più piccola dedicandosi però non alla produzione ma al commercio. Il figlio Valdemaro, nato agricoltore, guidava le bestie e con il carro portava alle miniere – carrava, era il termine usato – i pali ed altra attrezzatura. Erano tempi di forte miseria, il piccolo podere si trovava su colline povere, dove d’inverno le mucche da lavoro non ce la facevano ad alzarsi da sole per la debolezza ma andavano tirate su per la coda e per alimentarle facevano la foglia, cioè sfogliavano le piante, insomma era una vita dura.
Poi con il commercio – una tabaccheria vineria che fungeva anche da alberguccio e all’occorrenza serviva una coppia di uova al tegamino – le cose andarono meglio ed arriviamo ad Andrea, che oggi ha 81 anni. Dopo diciotto anni passati a sfornare pane, fece fortuna prima come commerciante di bestiame e di mangimi, poi come allevatore tanto da poter comprare un podere ed iniziare nuovamente con la vite.
“Mio babbo, che ora ha 81 anni, cominciò a fare il vino come in gioventù, cioè vendendolo sfuso nella cantina” – racconta Enrico Corsi – “Le prime bottiglie di vino bianco sono arrivate nel 1999 quando io un po’ caparbiamente ho preso in mano la produzione, mentre il primo rosso è del 2000: un super Sangiovese Riserva che incredibilmente in Italia arrivò a costare 20 euro, il doppio dei vini locali, e a New York 100 dollari, perché gli Americani se ne erano innamorati. Ma poi da quella vigna di oltre 30 anni non sono più riuscito a ricavare un vino di quel prestigio, di quella potenza, e allora mi sono buttato sui vitigni internazionali. Io volevo piantare Sangiovese, la vite più usata in toscana e la più produttiva, ma era il 2000, l’anno in cui tutti piantavano viti soprattutto di questo vitigno e le barbatelle erano finite. Per combinazione trovai delle barbatelle di Merlot avanzate, nemmeno certificate, e fu un successone, perché con quella vigna, che poi ho moltiplicato per tre, ci ho vinto il concorso per il miglior Merlot di Italia ad Aldeno nel 2010 con il Merlot 2008, mentre nel 2008 con l’annata 2006 ero arrivato primo degli Igt”.
La produzione continua a differenziarsi e a guadagnare riconoscimenti con le Doc Monteregio di Massa Marittima Rosso Colle Bruno (dedicato al nonno materno che era di Valdelsa) e Brecce Rosse, l’Igt Maremma Toscana Rosso Cabernets, gli Igt Maremma Toscana Bianco Valdemar (dedicato al nonno paterno) e Trinus (Malvasia, Chardonnay e Vermentino, “padre figlio e spirito santo, spieghi cos’è la trinità dicendo che è tre sostanze e un sapore solo, ma se tu lo sai valutare le riconosci una per una”, sottolinea Corsi). E naturalmente il Predicatore, rosso passito Toscana Igt, che ha una storia tutta sua.
“La mia nonna diceva che è un peccato sprecare la roba, nella civiltà contadina ‘un si butta via niente. Nasce da qui l’idea di recuperare i grappoli altrimenti destinati ad essere persi. Il mio babbo non sopportava l’idea di diradare le uve e questi acini, che costituivano il 50% della produzione e rimanevano in terra scartati, provocavano delle liti in famiglia che duravano settimane intere. Avevo iniziato ad occuparmi direttamente del vino da tre anni quando, sempre per combinazione, per mancanza di tempo mi trovai a diradare il Merlot con una settimana di ritardo, quando le uve erano già invaiate, cioè avevano già cambiato colore perchè avevano dello zucchero dentro. Dopo una settimana ripassando nel vigneto assaggiai quest’uva passa che era squisita e decisi di vinificarla, pensando al metodo con cui si trattano le uve del Vinsanto, le prime ad essere raccolte. L’esperimento riuscì e da allora ogni anno lasciamo per ogni pianta due grappoli, di cui uno viene raccolto in un secondo momento”.
La tecnica messa a punto anche grazie alla preziosa collaborazione dell’Università di Pisa e all’uso di metodiche antiche, consiste dunque nel diradare le uve con un po’ di ritardo, ottenendone un duplice guadagno. Anche l’epoca di vendemmia del Merlot viene in genere posticipata all’ultima settimana di settembre e permette di vinificare quando il clima è più fresco. Le uve sono un po’ zuccherine e quindi atte a fare un vino passito, in cui è importante raggiungere un giusto equilibrio tra acidità e zuccheri.
E’ ora più chiara la scelta di dare a questo vino pluripremiato (Medaglia d’Oro a La Selezione del Sindaco 2009 e Medaglia d’Argento a La Selezione del Sindaco 2011), il nome del santo riconosciuto come uno dei più grandi predicatori della cristianità. L’idea di fare un vino prodotto con uve considerate inadatte alla vinificazione ricorda, infatti, le parole del Vangelo “la pietra scartata è divenuta testata d’angolo”.
L’ultimo arrivato in casa Corsi è il Cavaliere d’Italia, che nasce nel 2011 dalle vigne recentemente acquisite a Scarlino, “vigne buone” – puntualizza Enrico - “perchè hanno 14 anni e sono davanti al Padule di Scarlino dove nidifica il cavaliere di Italia, un uccello migratore che privilegia i climi come quello della Maremma e la cui sagoma affilata e snella ben descrive questo prodotto fresco, sottile e goloso. La scelta del nome è stata un po’ influenzata dalla voglia di festeggiare l’Unità di Italia e contemporaneamente il primo anno della Doc Maremma Toscana, con un vino ricavato da un uva nobile per eccellenza, il genio toscano dell’uva cioè il Sangiovese”.
E le quantità di produzione? Basse, e non solo perchè si fanno pochi quintali di uva ad ettaro. “Non avendo mercato non vogliamo imbottigliare più della quantità che sarebbe vendibile ad un prezzo equo. L’intenzione di espandere il mercato e cercare di crescere ovviamente c’è, ma mantenendo la filosofia del servizio: fare un vino ‘poco’ ma buono e che costi in maniera giusta. Prima per esempio la produzione ortofrutticola veniva fatta in grande stile per venderla ai supermercati, ma per farla “perfetta” come ce la chiedeva la grande distribuzione dovevamo avvelenarla un giorno sì e un giorno no. Ci siamo stancati e ora ne facciamo a meno, limitandoci ai pochissimi trattamenti indispensabili per combattere efficacemente i patogeni (che in Maremma, essendo caldo, sono essenzialmente le tignole). Noi si vende a casa e si compra in fiera, come diceva nonno Valdemaro, perchè comprando in fiera si sfrutta la concorrenza dei venditori e vendendo a casa si ha la possibilità di “fare confidenza” (oggi si dice “fidelizzare il consumatore”) offrendogli la possibilità di assaggiare i nostri prodotti per fargli capire chi siamo e come lavoriamo”.
Lo sanno bene i numerosi e affezionati abitanti e turisti di questo tratto della costa toscana, che da anni si fermano in azienda a comprare prodotti freschi e trasformati: frutta, verdura, conserve e marmellate, vino e olio.
Perchè Enrico, che ha fatto il Master in Olivicoltura e Olio di Qualità dell’Università di Pisa (che oggi è anche il principale partner tecnico dell’Azienda La Cura), è anche uno sperimentatore dell’olivo. La base del suo extravergine è Frantoio, Moraiolo, Leccino e Pendagliolo (una cultivar poco conosciuta e proveniente da Volterra), ma poi c’è un piccolo impianto della Nostrana di Brisighella (dall’oliva molto profumata) e quest’anno è stato piantato un ettaro di superintensivo costituito per metà dalla spagnola Arbechina e per metà dal Leccio del Corno, pianta toscana poco vigorosa ma che dà un olio squisito. La speranza è che si riveli un buon investimento, perchè questo tipo di oliva si raccoglie con la vendemmiatrice, che oltre all’uva raccoglie anche le olive senza sciuparle e in tempi ridottissimi – in due ore hai fatto un ettaro e dopo tre ore lo trasformi al frantoio – assicurando così il massimo della genuinità, della tecnica e della economicità.
E nel prossimo futuro c’è anche il progetto di fare la birra con l’orzo di produzione propria. Il marchio di una birra Tuscan è stato già registrato, manca solo il supporto di un maestro birraio e poi potremo valutare anche l’ultima sfida di questo inesauribile produttore! (di Alessandra Calzecchi Onesti)
Bernardino da Siena, un santo di grande attualità. Il frate scherzoso che condannava l’usura, lodava gli imprenditori onesti e giustificava la proprietà privata solo se utilizzata per rendere migliore tutta la società
Nato nel 1380 a Massa Marittima da Nera degli Avveduti e dal nobile Tollo degli Albizzeschi, governatore della città, Bernardino frequentò gli studi a Siena dove prese l’abito a ventidue anni, iniziando un’intensa attività di predicazione in tutta l’Italia settentrionale. La sua attenzione agli aspetti pratici della vita dei fedeli, con un’analisi decisamente moderna, fu così incisiva da essere sprone di forte rinnovamento per la Chiesa cattolica italiana e per tutto il movimento francescano.
Nonostante un processo per eresia al vaglio della Santa Inquisizione (da cui fu completamente prosciolto) e nonostante i contenuti espliciti e taglienti delle sue prediche che gli procurarono diversi nemici, nel 1450, a pochi anni dalla sua morte avvenuta a L’Aquila, fu proclamato santo da papa Niccolò V.
I sermoni (in parte raccolti ne “Le Prediche Volgari di Siena”) duravano tre o quattro ore ed erano pieni di esempi, aneddoti e digressioni, con frequente ricorso ai dialetti ed ai gerghi locali, alla mimica e agli scherzi. Come ad altri importanti predicatori, gli fu particolarmente caro il tema della riconciliazione e della risoluzione delle contese.
Ma il suo pensiero è ricordato nella storia del pensiero economico poiché fu il primo teologo, dopo Pietro di Giovanni Olivi, a scrivere un’intera opera sull’economia (“Sui contratti e l’usura”) in cui condanna aspramente l’usura e affronta i temi della giustificazione della proprietà privata, dell’etica del commercio e della determinazione del valore e del prezzo.
Bernardino analizza con grande profondità la figura dell’imprenditore e ne difende il lavoro. Il commercio non è necessariamente fonte di dannazione, potendo essere praticato in modo lecito o illecito come tutte le altre occupazioni. Se onesto, anzi, un mercante fornisce servizi utilissimi a tutta la società: riappiana la scarsità di beni in una zona trasportandone da zone in cui sono abbondanti, custodisce beni limitando i danni di eventuali carestie, trasforma in prodotti lavorati le materie altrimenti grezze e inutili.
Il commercio equo, sostiene il frate francescano, transita attraverso l’efficienza e la responsabilità e procede grazie alla laboriosità ed all’assunzione del rischio. La proprietà esiste è ed un bene, almeno finché non appartiene all’uomo ma sussiste per esso, quale strumento per ingenerare miglioramento nel mondo. I guadagni che derivano ai pochi che hanno saputo attenersi a queste virtù sono la giusta ricompensa per il duro lavoro svolto ed i rischi corsi. Sono per contro, deprecabili senza mezzi termini i nuovi ricchi, che invece di investire la ricchezza in nuove attività, preferiscono prestare a usura e strangolano la società anziché farla crescere.
Bernardino riteneva, infatti, che la proprietà non “appartenesse all’uomo”, quanto piuttosto “fosse per l’uomo” uno strumento per ottenere un miglioramento nell’insieme della società. Uno strumento che veniva da Dio e che l’uomo doveva meritare, applicare e far fruttare come saggio amministratore.
E con un’intuizione estremamente attuale, la sua attenzione non era rivolta solo ai “veri” poveri, quelli che avevano già diritto all’elemosina e al sostentamento diretto da parte del prossimo facoltoso, ma anche all’indigente “potenziale”, agli artigiani, ai contadini, ai piccoli professionisti che per impellenti difficoltà economiche potevano trovarsi nel baratro dell’indebitamento perdendo i loro beni, e soprattutto gli stessi strumenti con i quali essi lavoravano, trovandosi così costretti ad abbandonare l’esercizio del mestiere o della professione.
Per il santo, le crisi economiche nascono quando si perde di vista «lo ben comune», la «mercanzia» (oggi potremo dire la “finanza”) deve essere buona cioè non contraffatta e parte delle risorse devono essere sempre destinate alla porzione meno fortunata della società, perchè l’elemosina (leggi “welfare”) non è una perdita ma un investimento e l’intera comunità ne trae beneficio in termini di concordia e stabilità.
di Alessandra Calzecchi Onesti