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L’occasione è il cinquantesimo anniversario della nascita delle Doc in Italia, una data importante per la nostra viticoltura di qualità e che offre spunti di riflessione sul ruolo delle denominazioni di origine ieri, oggi e domani. Nel 1963 dopo numerosi e infruttuosi tentativi fu approvata, infatti, la prima legge di tutela delle Denominazioni di Origine dei Vini proposta dal monferrino Paolo Desana e oggi, a mezzo secolo di distanza, in Italia sono riconosciuti 334 vini D.O.C. e 73 vini D.O.C.G., tutti tutelati e garantiti dai propri Disciplinari di Produzione (ovvero le loro carte di identità).
Il volume “50 Doc. 50 anni di denominazioni d’origine a tutela del vino italiano”, firmato dall’Associazione nazionale delle Città del Vino e da SapereSapori e Gustolandia Progetti di WebFl@vors, sarà presentato all’Istituto della Cultura Italiana di Marsiglia, il 3 dicembre prossimo, in occasione dell’evento che vedrà protagonista la Regione Piemonte con i suoi vini DOC e i prodotti DOP quale regione simbolo di tutta la qualità italiana.
Il volume, edito da Civin srl, racconta i primi 50 vini italiani che hanno ottenuto la Denominazioni di origine, ciascuno abbinato alla descrizione di un prodotto certificato Dop o Igp dello stesso territorio e alla ricetta di un piatto della tradizione locale. L’Introduzione è firmata da uno tra i massimi esperti di viticoltura mondiale ed anche uno dei più prestigiosi e attivi Ambasciatori delle Città del Vino: il professor Mario Fregoni, che è stato presidente del Comitato Nazionale Vini Doc ed estensore della seconda legge sulle DOC, la 164/92.
Lo spirito dell’iniziativa è lo stesso che aveva animato la pubblicazione di “Un’Itàlia, 150 piatti 150 vini 150 territori” edito per l’anniversario dell’Unità di Italia: diffondere cultura sulla storia dei vini di qualità e valorizzare le tradizioni gastronomiche attraverso la riscoperta dei piatti e dei prodotti che questi vini accompagnano sulle nostre tavole.
COSA SONO LE DENOMINAZIONI DI ORIGINE?
Imitando la legislazione francese sulle DOC, che risaliva agli anni Trenta, nel 1963 anche l’Italia introdusse il concetto di denominazioni di origine con una legge chiamata «Norme per la tutela delle denominazioni di origine dei mosti e dei vini» (DPR n. 930 del 12/07/1963), firmata dal senatore Paolo Desana. Il legislatore italiano stabilì che solo i vini prodotti nella propria zona tipica di origine con le uve caratteristiche di quella zona possono essere contrassegnati con la sigla DO (Denominazione di Origine). E classificò ulteriormente i vini in: Identificazione Geografica Tipica (IGT), Denominazione di Origine Controllata (DOC), Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG).
Più precisamente:
• le DOC sono i vini che corrispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti dai relativi disciplinari di produzione; sono cioè prodotti in una zona delimitata seguendo le indicazioni del disciplinare riguardo ai vitigni da utilizzare, la produzione per ettaro, la potatura, il grado alcolico, i procedimenti di vinificazione, le qualità organolettiche.
• le DOCG sono vini di speciale pregio e notorietà nazionale e internazionale, che sono DOC da almeno cinque anni e che hanno un disciplinare di produzione particolarmente severo oltre ad un doppio controllo: chimico-organolettico nella fase di produzione ed organolettico prima dell’imbottigliamento.
• le IGT sono vini ottenuti da uve provenienti da vitigni tradizionali delle corrispondenti zone di produzione, vinificate secondo gli usi locali, leali e costanti delle zone stesse.
In seguito quella prima legge fu modificata e integrata da altri due importanti provvedimenti, uno nel 1992 (“Nuova disciplina delle denominazioni d’origine dei vini”) ed uno nel 2010 (“Tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini, in attuazione dell’articolo 15 della legge 7 luglio 2009, n. 88″) , ma lo scopo principale del legislatore restò quello iniziale e cioè tutelare i consumatori definendo le caratteristiche dei più importanti vini italiani e introducendo per ognuno di essi l’obbligo di rispettare un disciplinare di produzione con tutte le regole sulle varietà, sulle tecniche viticole ammesse e su quelle enologiche.
Oggi le denominazioni di origine sono complessivamente 403, di cui 330 Doc, 73 Docg e 118 Igp.
L’IMPORTANZA DEL TERROIR HA RADICI ANTICHE
Sulle antiche anfore del vino veniva scritto il nome del luogo di produzione, quello del proprietario e l’annata. L’uso del nome geografico per indicare il vino risale alle antiche civiltà. Si conoscono, infatti, i genius loci di diversi crus egiziani, armeni, siriani, libanesi, israeliani, greci e tanti romani (oltre 60 nomi grografici, quali Falernum, quello più famoso, Cecubo, Albano, Mamertino, Pompeiano, Pucino, ecc.).
Questa tradizione si é estesa in Bourgogne dove nel 1000 i Benedettini hanno classificato gli attuali crus, ne parla il sommelier Sante Lancerio nel 1549 illustrando i vini che il Papa Papa Paolo III Farnese desiderava nelle diverse circostanze. Preziosa e precisa al riguardo é l’opera enciclopedica del Bacci (1596), medico del Papa, nella quale elenca 44 denominazioni geografiche utilizzate per indicare i vini. I primi riconoscimenti giuridici ufficiali giungono con i decreti del Tokay ungherese (1700), del Chianti (l’attuale zona del Classico) (1713), del Marsala (1773) e delle diverse classi dei crus di Bordeaux (1885).
La prima legge di uno stato viene approvata dalla Francia nel 1935, anche se in questo Paese diverse denominazioni erano già in uso su scala regionale. L’ Italia inizia con i vini tipici nel 1937 (ma furono una delusione ) e quindi approva la prima legge sulle denominazioni di origine controllata e garantita nel 1963. Ma quando inizia, in Italia, l’uso del nome varietale per indicare il vino? Si può collocare questa scelta verso la fine del 1600, inizi del 1700.
É pur vero che i Romani distinguevano le “aminee” (neutre) e le “apiane” (aromatiche, tipo i Moscati) e alcune altre, ma non usavano i nomi per “etichettare” i vini, in quanto nei vigneti le varietà erano mescolate anche con uve selvatiche (Vitis Sylvestris), tradizione che si mantenne sicuramente nel 1700 secondo fonti bibliografiche. I vini erano infatti frutto dell’uvaggio di popolazioni plurivarietali e di uve selvatiche.
QUALE FUTURO PER LE DENOMINAZIONI DI ORIGINE?
Come abbiamo appena ricordato, storicamente ha sempre avuto maggiore importanza il terroir, ossia l’ambiente di produzione e l’uomo che lo governava e le moderne denominazioni hanno queste basi storiche. Ciò nonostante negli ultimi secoli, in particolare in Italia e nel Nuovo Mondo, ha preso il sopravvento la consuetudine di chiamare il vino con il nome delle varietà. Circa il 20% dei vini internazionali porta solo il nome della varietà; circa il 10% dei vini mondiali viene etichettato con il solo nome geografico (per esempio Barolo, Chianti, diversi Chateaux Bordolesi, crus della Bourgogne, ecc.); il 70% dei vini viene etichettato congiuntamente con il nome della varietà e della zona di produzione.
E’ allora forse opportuno porsi la questione se sia più opportuno continuare a mettere l’accento sulla valorizzazione e la protezione del nome del terroir o invece del nome varietale? Si fa rilevare che le DOP sono protette nell’U. E. e in molti Paesi europei, mentre negli altri Paesi concorrenti o consumatori le denominazioni di origine geografiche si possono depositare come marchi. Al contrario la varietà é apolide e si può coltivare in tutto il mondo, utilizzando il suo nome sulla bottiglia. Nel 1900 la viticoltura mondiale é stata occupata da un ristretto numero di vitigni settentrionali Europei, francesi specialmente (detti internazionali), mentre migliaia di varietà autoctone di origine orientale sono andate perdute, perché non coltivate.
L’analisi sensoriale di un panel di degustatori ha rivelato che é difficile riconoscere la varietà utilizzata per un vino, ed altrettanto succede per i consumatori, mentre il terroir é più agevole da individuare. Inoltre il terroir é inimitabile perché non trasferibile, mentre la varietà si può coltivare in tutti i Paesi del mondo, tanto che la concentrazione su pochi vitigni internazionali sta producendo molti vini uguali in tutto il globo terrestre, specie con la ripetizione della moderna tecnologia di cantina uguale in tutti i continenti.
Dovremmo pertanto puntare sui vini di terroir provvisti della tipicità impressa dai fattori ambientali (terreno e clima). Vi sono varietà di qualità ma che danno vini di alta tipicità solo nei grandi terroir: es. il Sangiovese a Montalcino, il Nebbiolo a Barolo, e via discorrendo. Il terroir si deve proporre non solo attraverso il nome geografico di ampi territori, ma soprattutto con i nomi delle “menzioni geografiche aggiuntive”, rappresentate da microzone o aziende note. Si citano gli esempi recenti del Barolo che ha introdotto ufficialmente nel disciplinare circa 180 piccoli nomi geografici, mentre il Barbaresco ne ha introdotti circa la metà. Senza modificare il disciplinare, si possono mettere in etichetta i nomi dei toponimi aziendali associati al termine “vigna”.
Ma é chiaro che le DO devono proteggere e assicurare la qualità e la tipicità sensoriale, prerogative non sempre coincidenti. La prima é ormai diffusa perché la tecnologia viticola ed enologica consentono di evitare i difetti e di realizzare standard di buon livello ormai in tutta la terra e in tutte le terre, mentre la tipicità é più difficile da ottenere perché é il frutto dell’interazione fra la varietà di pregio e dell’ambiente (terreno e clima), cioè di un terroir di classe non comune che fornisce vini rari non imitabili.
PIATTI E PRODOTTI ECCELLENTI PER ACCOMPAGNARE VINI ECCELLENTI
A vini così pregevoli sono stati abbinati piatti e prodotti altrettanto ricchi di storia e di “saperi”, che raccontano una parte importante della cultura gastronomica italiana.
Solo per ricordarne qui alcuni, si va dai crostini neri toscani che accompagnano il primo vino ad ottenere la certificazione, la Vernaccia di San Gimignano in provincia di Siena, all’Asiago, il formaggio veneto che si produce nella stessa area dei vini Colli Euganei, apprezzati già da Francesco Petrarca. I ravioles al castelmagno, prodotto cuneese d’alpeggio di origini antichissime, si sposa con il Barbaresco piemontese, mentre il rosso Cellatica bresciano innaffia una fettina del Salame Brianza, perfettamente stagionato dal al particolare clima delle Prealpi.
Gli arancini di riso, portati in Sicilia dagli Arabi, fanno onore all’Etna, le cui uve vengono coltivate sulle pendici dell’omonimo vulcano.
La croccante oliva ascolana del piceno, riccamente farcita e fritta, richiede un bicchiere di Verdicchio dei Castelli di Jesi, le cui uve verdognole furono probabilmente portate dai Greci nelle Marche.
E così via, per 150 proposte di profumi e sapori da portare sulle vostre tavole!
Alessandra Calzecchi Onesti