La “tibùia”

La Sfogliata, detta anche Torta degli ebrei, (in dialetto Tibùia) è una torta salata composta da vari strati sovrapposti di un impasto a base di farina, burro, strutto e formaggio Parmigiano Reggiano.

 

Si stemperano gli ingredienti con acqua tiepida, formando un impasto non troppo duro né troppo tenero; una volta ben lavorato lo si suddivide in parti uguali che saranno successivamente stese col mattarello ed all’interno delle quali sarà steso il grasso. Si ripiegherà poi la pasta sopra al grasso in modo da ottenere una sorta di pacchetto. Tale operazione sarà ripetuta più volte. Al termine si procederà col disporre, nell’apposito contenitore, alternativamente una sfoglia di pasta ed il parmigiano – reggiano; il tutto sarà passato in forno caldissimo. 

A dispetto del nome, le sue origini sono incerte. Vanta, però, molti parenti sparsi nei Paesi mediterranei, con qualche puntata nella Mitteleuropa e nei Balcani. La semplicità degli ingredienti è tale da renderla universale: farina, acqua, sale, strutto e formaggio. A Finale Emilia è conosciuta come “Torta degli ebrei” o “tibùia” (quest’ultimo nome derivato presumibilmente dal cognome di un antico venditore, Tiburzi), anche se nel gergo corrente viene quasi sempre chiamata “sfogliata”.

Chi ne ha inseguito le numerose versioni sparse in Italia e all’estero, ne ha trovate a Reggio Emilia (le “chizze”), a Ferrara (“buricche”), in Spagna (“hojaldres”), in Germania e nei balcani (“burek”, termine che ricorda incredibilmente le buricche ferraresi), nel Nord Africa (“fatir mishaltit” in Egitto). In quasi tutti i Paesi, a questo alimento vengono attribuite origini ebraiche.

La tibùia finalese costituisce apparentemente un controsenso, perchélo strutto, grasso suino, ètabùper questo popolo. «Ma c’è una spiegazione – racconta Celso Malaguti, studioso appassionato di tradizioni finalesi – la ricetta originaria era segretissima e fu divulgata a metàdell’Ottocento da un ebreo convertito al cristianesimo che, per vendicarsi del disprezzo dei suoi ex correligionari, divulgò gli ingredienti e la tecnica per farla, sostituendo però al grasso d’oca lo strutto di maiale». Giuseppe Alfonso Maria Alinovi, questo il nome del convertito, oltre a rendere pubblica la ricetta, ne fece anche un’attività redditizia e si mise a venderla a Finale sotto i portici di Santa Caterina (oggi via Mazzini). E anche questa divenne una tradizione: anziane signore producevano la “torta” e la vendevano nel portico davanti casa, mettendola in mostra su un caratteristico trabiccolo di legno che sotto la padella di cottura della torta aveva le braci per mantenerla calda. La “tibùia” va assaporata infatti ben calda, prevalentemente in inverno, quando fornisce calorie per difendersi dal freddo. In particolare, nella tradizione locale va consumata il giorno dei morti per rinfrancare i vivi nel giorno del dolore.

La sua presenza a Finale è documentata sin dal 1626, quando in paese vivevano circa 350 ebrei, confinati nel ghetto costituito all’interno del vecchio borgo finalese.

La “tibùia” è sempre rimasta un prodotto artigianale e per assaporarla bisogna andare a Finale.

fonte percorsigastronomici.it

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