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La gastronomia della Campania è tra le più ricche e originali cucine regionali italiane. Con Napoli per secoli capitale del Regno, in realtà più che regionale la sua è una vera e propria cucina nazionale, con le sue varianti aristocratiche , raffinate per l’elaborazione dei diversi influssi greci, arabi, normanni, francesi e popolari, dalle invenzioni ingegnose e saporite, come la pizza, ormai diffusa in tutto il mondo.
“Fin dalle prime ore del mattino un tenero vapore si congeda dal tegame di terracotta in cui diventa bionda la cipolla ed esala le sue nobili essenze il rametto di basilico appena colto sul davanzale”: così inizia il poemetto in prosa che Giuseppe Marotta dedica al ragù che condirà la pastasciutta, un piatto fondamentale sulla tavola napoletana in specie, e campana in genere. Per non diventare qualcosa di più di un sugo di carne con il pomodoro, il ragù non deve mai essere abbandonato a se stesso in nessuna fase della cottura. Scelto il pezzo di carne, né magra né grassa, lo si mette nel tegame sorvegliando la rosolatura e spalmando il primo strato di conserva, cui seguiranno, a intervalli, gli altri. Alla base del ragù c’è il pomodoro, portato in Italia dopo la scoperta dell’America, dal Perù o dal Messico. Ignorato per due secoli, viene citato per la prima volta nel 1743 in un canto di Carnevale, ma soltanto tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si diffuse diventando una delle produzioni più importanti della Campania. Da allora entra in molte ricette. A Napoli è sorta l’industria conserviera che ha portato in tutto il mondo i “pelati” e il “concentrato”. Molti sono i metodi casalinghi di conservare i pomodori: tagliati a pezzi e messi in bottiglia, oppure passati, alla “conserva”, in cui sono stracotti fino a diventare una crema densa.
Il pomodoro è un ingrediente fondamentale della pizza, la creazione più celebre della cucina campana. Già nota ai romani, era allora una specie di focaccia di grano, chiamata lagana o picea, da cui deriva “piza” e infine “pizza”, ma quella che conosciamo noi ha poco più di due secoli. La mangiava il popolino, e la preparava il cuoco di corte per la tavola reale. Si dice che Ferdinando IV di Borbone ne fosse così ghiotto da utilizzare una volta, per cuocerla, i forni di Capodimonte da dove uscivano le preziose ceramiche. Si lasciarono conquistare da questo piatto meridionale anche i sovrani piemontesi: fu per Margherita di Savoia che nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito creò la pizza “tricolore” con mozzarella, pomodoro e basilico, che si chiamò appunto “pizza Margherita”.
Altre glorie della cucina napoletana – una cucina per metà di terra (pasta, verdura, latticini) e per metà di mare (pesce, crostacei, molluschi) – sono i piatti che utilizzano gli ortaggi dell’agro campano, come la parmigiana di melanzane e i peperoni ripieni. Fra le ricette di pesce primeggiano i “polpi alla luciana”, cotti con peperoncino piccante e pomodoro, così chiamati dal rione di Santa Lucia. Le “vongole veraci” entrano nella zuppa di pesce o nel condimento per i “maccheroni” o i “vermicelli”.
La pasta, che pure non è stata inventata a Napoli, ha qui tuttavia raggiunto i vertici della perfezione, e a Gragnano, a pochi chilometri dalla capitale, si è trovato il modo per essiccarla e conservarla, dando così origine alla produzione industriale.
Presenza importante della cucina napoletana sono i latticini: provolone, scamorza, caciocavallo, ricotta e soprattutto mozzarella, il formaggio a pasta filata che si ottiene dal latte di bufala. La si produce ad Aversa, Battipaglia, Capua, Eboli, Sessa Aurunca. Una varietà di mozzarella sono i “burrielli”, bocconcini di tipo più dolce conservati in anfore di terracotta e immersi nel latte. Esiste nella gastronomia napoletana una serie di piatti che risalgono alla tradizione di corte e alla “scuola” francese. Erano ricette molto elaborate la cui esecuzione era affidata a cuochi espertissimi come Vicienzo ‘e Cumpagna e Nicola ‘e Tricase, che accompagnavano il nome di battesimo con quello della famiglia presso la quale lavoravano. Tra le loro preparazioni la più celebre è il “sartù”, un timballo a base di riso, ripieno di fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, mozzarella, piselli e condito con ragù. Il nome deriva da surtout perché “sopra tutto” stava il riso.
I classici dolci napoletani sono i gelati, i “babà”, gli spumoni, le sfogliatelle, i “taralli”, la “pastiera” con la ricotta fresca, i fiori d’arancio, la cannella, i canditi.
Il grande manuale della cucina regionale, Euroclub-Bertelsmann, Bergamo 1979.