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Misura più di 6 campi da calcio la superficie di cui ogni italiano ha bisogno per produrre le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti che genera
4,76 ettari, più di 6 campi da calcio: è quanto misura l’Ecological Footprint italiano pro capite – la superficie di terreno che sarebbe necessaria per produrre e smaltire i consumi di ognuno di noi. E’ quanto emerge da “Cambiamento Climatico, Agricoltura e Alimentazione”, secondo position paper del Barilla Center for Food & Nutrition presentato in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente.
L’Italia finisce in 24ma posizione nella classifica mondiale dell’Ecological Footprint pro capite. Ai primi posti si trovano Emirati Arabi e Stati Uniti, ma tra i primi 15 classificati figurano anche alcuni paesi europei, come Danimarca, Norvegia e Spagna.
“Secondo questo indicatore, oggi il consumo di risorse nel mondo è superiore al 130% della capacità globale della Terra”, ha dichiarato Barbara Buchner, ricercatrice all’IEA (International Energy Agency) di Parigi e membro del Barilla Center for Food & Nutrition. “Questo significa che attualmente l’umanità avrebbe bisogno di 1,3 volte il pianeta per sostenere i propri consumi e assorbire i propri rifiuti. Secondo le attuali stime di crescita economica, demografica, di emissioni di CO2 e di consumi, nel 2050 i pianeti necessari sarebbero più di 2”.
Dal punto di vista economico, le conseguenze di un intervento parziale o assente da parte delle Istituzioni sono allarmanti. Se guardiamo al nostro Paese, i costi che l’Italia sopporta per lo sforamento dei limiti previsti dal trattato di Kyoto sono pari a 3,6 milioni di Euro al giorno, ovvero 1,3 miliardi di Euro all’anno. Dal 1 gennaio 2008, quindi, il Debito Verde accumulato è pari a 1,85 miliardi di Euro, che equivale, ad esempio, a sei volte i fondi stanziati dal nostro Governo nel 2007 per la ricerca sanitaria.
“Le implicazioni economiche del climate change mettono in luce la serietà del problema. Allo stesso tempo, questi dati possono essere motore di cambiamento dell’atteggiamento dei singoli, delle aziende e dei Governi”, ha dichiarato Mario Monti, economista e membro del Barilla Center for Food & Nutrition. “Questa nuova consapevolezza, inoltre, può essere accresciuta dall’attuale momento economico globale: la crisi potrà aiutare a modificare in profondità le dinamiche di scelta della business community, facendo nascere una nuova coscienza in termini di responsabilità”.
Componente determinante per guardare in prospettiva questo quadro è il cambiamento climatico, e la sua stretta connessione con il settore agroalimentare.
Da un lato, infatti, l’attività agricola è responsabile del 33% dei gas serra prodotti ogni anno nel mondo. In Italia, la principale attività generatrice di gas serra nel settore agricolo è la deforestazione, che genera emissioni annuali pari a 8.500 tonnellate di anidride carbonica equivalente, seguita dall’attività di fertilizzazione (2.100 tonnellate di CO2 equivalente) e dai gas provenienti dalla digestione bovina (1.800 tonnellate di CO2 equivalente).
Dall’altro lato, invece, il cambiamento climatico determinerà progressivamente un calo della produzione agricola mondiale pari a quasi 190 miliardi di dollari all’anno, con un rischio di perdita per l’Italia di quasi 2,4 miliardi di dollari l’anno.
I mutamenti nel settore agroalimentare avranno impatto anche sulla sicurezza di ciò che mangiamo, in modo particolare per quanto riguarda la gestione e la disponibilità di acqua dolce e la diffusione di malattie e contaminazioni dovute allo svilupparsi di nuovi virus, batteri, parassiti, malattie e funghi e allo spostamento delle coltivazioni in aree del mondo climaticamente più favorevoli, con ripercussioni anche sull’accesso al cibo e sulla sicurezza sociale.
Quali le strategie, quindi, per uno sviluppo sostenibile in ambito agroalimentare? Sei le raccomandazioni che vengono dal Barilla Center for Food & Nutrition:
– Promuovere e diffondere l’impiego di indicatori di impatto ambientale oggettivi, semplici e comunicabili;
– Incoraggiare politiche economiche e sistemi di incentivi/disincentivi equi ed efficaci;
– Ri-localizzare le colture, ridurre l’incidenza dell’allevamento, salvaguardare il patrimonio forestale;
– Favorire l’innovazione tecnologica e promuovere tecniche di coltivazione sostenibili (best practice);
– Promuovere politiche di comunicazione trasparente (fino al green labelling);
– Promuovere stili di vita e alimentari ecosostenibili.
da La Stampa