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Carne di selvaggina tritata e impastata con sale, pepe, finocchio selvatico o altre erbe, pressata e quindi fatta affumicare.
Dall’esigenza di conservazione delle carni nacquero la pitina e le sue varianti peta e petuccia, che differivano dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi.
L’animale veniva disossato e la carne triturata finemente nella pestadora (un ceppo di legno incavato). Alla carne si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato.
Con la carne macinata si formavano piccole polpette, si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare sulla mensola del fogher. La pitina, col passar del tempo, si asciugava e per consumarla occorreva ammorbidirla nel brodo di polenta.
Viene chiamata anche Petuccia, Pitina, Petina.
Oggi la pitina è ingentilita da una parte di grasso di suino che smorza il sapore intenso e un po’ selvatico della carne di capriolo, capra o pecora. L’affumicatura si realizza con diversi legni aromatici, a volte mescolati tra loro (ma con la prevalenza del faggio). La pitina oggi si mangia cruda a fettine, dopo almeno 30 giorni di stagionatura, ma è ottima anche cucinata. Può essere scottata nell’aceto e servita con la polenta, rosolata nel burro e cipolla e aggiunta nel minestrone di patate, o ancora fatta al cao, cioè cotta nel latte di vacca appena munto.
Molte sono le varianti proposte: dalla ricetta più antica – cotta nel brodo di polenta e aromatizzata con ginepro e rosmarino – alla più moderna: un gustoso cosciotto di agnello ripieno di pitina.
Territorio interessato alla produzione: Valli del Pordenonese, più precisamente Val Tramontina, Valcellina, Val Colvera; in particolare il territorio dei comuni di Claut, Cimolais, Andreis, Barcis, Montereale Valcellina, Frisanco, Tramonti di Sopra e di Sotto, Meduno