Lazio.. i suoi sapori

Nonostante la presenza della Capitale, che nell’ultimo secolo ha agito come potente fattore di unificazione gastronomica, la tradizione culinaria del Lazio ha saputo conservare identità diverse da provincia a provincia, che solo parzialmente coincidono con quella romanesca. È sufficiente percorrere una qualsiasi delle strade consolari che si diramano a raggiera da Roma per vedere mutare gradualmente l’ambiente naturale e, insieme a questo, i menù che riflettono i piatti più tipici.
Risalendo la via Cassia verso la Tuscia, ecco l’acquacotta, ereditata dalla tradizione toscana in compagnia di pici e pappardelle al cinghiale, zuppe di ceci, funghi o castagne. In Ciociaria è la volta di sagne, pezzole, frescareji e altre paste fatte in casa, come i fini fini, sottili maccheroni all’uovo, gustosissimi e ruvidi al tatto, in genere conditi con rigaglie di pollo.
L’Agro Pontino, attraversato dalla via Appia, è il regno delle mandrie di bufali che, anche nel paesaggio, già anticipano la Campania, e si offre al visitatore con spezzatini e pietanze di carne bufalina, formaggi e mozzarelle Dop.
In Sabina si incontrano gli strengozzi, strisce di pasta di acqua e farina condite con sughi a base di cacciagione, secondo un uso condiviso con la cucina umbra; oppure la semplice pasta alla gricia, nata sulle alture dell’Appennino abruzzese con i pochi ingredienti a disposizione dei pastori: guanciale, peperoncino e pecorino.
 
Tante cucine diverse, accomunate dalla vocazione pastorale A cercare un tratto comune lo si ritrova proprio nella sua vocazione pastorale della regione. Poche cucine sono riuscite a conservare un così forte legame col proprio territorio, senza vedere intaccato, neppure in presenza di una metropoli come Roma, l’originario carattere agreste.

Basti pensare alla ricotta e al pecorino romano – ma anche a carciofi, zucchine e broccoli romaneschi – che portano nel nome l’indicazione di una città che non ha eguali per quantità e qualità della produzione agroalimentare.
Non è un caso che Roma sia oggi il comune agricolo più grande d’Europa, capace di contrapporre alle effimere mode gastronomiche la rustica sostanza di piatti plebei, tornati in auge grazie all’eccellenza delle sue materie prime, alcune tutelate da un marchio di qualità comunitario.

Piatti semplici e imitatissimi come gli spaghetti cacio e pepe, alla carbonara o all’amatriciana vengono esaltati dal pecorino romano, una delle prime Dop nazionali. Ma fanno la differenza anche i cimaroli, ovvero i carciofi romaneschi del Lazio Igp (quelli autentici si mangiano solo fra gennaio e maggio), che in genere vengono preparati alla giudìa – una doppia frittura che li rende teneri all’interno e croccanti fuori – oppure alla romana, stufati con un ripieno di menta, aglio e pangrattato. O ancora fritti insieme ai pezzetti, un misto di cervella d’abbacchio, animelle, fegato e fette di pane.

I capisaldi di questa cucina sono i primi piatti, sia asciutti sia in brodo. Questi ultimi sono preparati con della pasta con verdure o legumi (ceci, patate, broccoli, fagioli), e il cosiddetto “quinto quarto”. Nei giorni di festa era molto comune l’abbacchio e la carne di capretto forniti direttamente dai pastori locali.

Roma è stata da sempre un mercato di consumo e non di produzione, ma la cucina romana ha avuto a disposizione le produzioni tipiche della regione, dall’olio ai maiali dell’Umbria (i macellai che vendevano maiale si chiamavano, infatti, norcini, e fino agli anni cinquanta il maiale non si vendeva da dopo Pasqua a novembre). Il burro nella vera cucina romana è praticamente uno sconosciuto: per ingrassare e anche per friggere si usava casomai lo strutto di maiale. Ma il condimento d’elezione è l’olio, ancora presente tra le produzioni tipiche del Lazio.
Il quinto quarto è quel che rimane della bestia vaccina o ovina dopo che sono state vendute ai benestanti le parti pregiate: i due quarti anteriori e i due quarti posteriori.
Si tratta, quindi, di tutto quanto è commestibile delle interiora: trippa (la parte più pregiata è l’omaso, a Roma detta anche cuffia), rognoni (i reni della bestia: vanno tenuti a bagno in acqua acidulata con limone, prima di cucinarli), cuore, fegato, milza, animelle (pancreas, timo e ghiandole salivari) e schienali, cervello e lingua. Dalla carne ovina si prende anche la coratella, l’insieme delle interiora (fegato, polmoni, cuore).
Per il maiale e la vitella, a questa lista vanno aggiunti gli zampetti.
Da che esiste Roma, le cucina delle classi meno abbienti è stata quella dei prodotti del vicino Agro, delle farinate e dei legumi. Non a caso la celebre “puls” dei romani (che per questo erano detti “pultiferi” cioè mangiatori di polenta) era una pappa di cereali e legumi che nei diversi accostamenti prendeva altri nomi e sapori. Tra i legumi erano i ceci a farla da padrona, anche sulla tavola dei ricchi. Bagnati di olio e presentati caldi in ciotoline di coccio aprivano il pasto della sera. Poi, con i secoli, la cucina del volgo prese l’abitudine di fare della zuppa di legumi il suo piatto della vigilia, come pasta, ceci e baccalà.

 

spunti da percorsigastronomici.it

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