Le credenze popolari a tavola

Alzi la mano chi non ha trascorso la mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno mangiando lenticchie e zampone o, magari, 12 chicchi d’uva (rigorosamente nera se marchigiani o valdostani). Poco importa se la ricchezza, promessa, rimarrà un’utopia. Porta fortuna, meglio farlo e non correre rischi. Il binomio cibo-tradizioni (o cibo-superstizioni) fa parte della storia dell’Italia. E non solo. La cornucopia, simbolo universale di abbondanza, è un corno carico di frutti. Diverse, poi, le «credenze» legate alla tavola.

Da quella di non rovesciare il sale o l’olio, a quella di non versare il vino con la mano sinistra. E ancora il divieto di mangiare mele il giorno di Natale (ricordo del pomo della discordia), di non capovolgere il pane perché ricorderebbe quello destinato al boia (che veniva capovolto per essere riconosciuto e, quindi, non toccato) o di non mangiare la testa dell’oca perché farebbe impazzire. Moltissimi i piatti regionali legati a riti e feste particolari. In provincia di Sassari, ad esempio, è usanza preparare caratteristici pani in occasione della notte di San Silvestro.

Si tratta del Sa Pertusitta, focaccia con in rilievo immagini di pastori e pecore, del Sa Zuada, variante con immagini di buoi e aratri, e del Su Cabude, torta a base di pane e ripiena di marmellata e fichi d’India. L’ultima notte dell’anno il capostipite della famiglia spezza questi pani sulla testa del primogenito in segno benaugurale. Da un’isola all’altra. In Sicilia, in occasione della festa di Santa Lucia (13 dicembre) è tradizione cucinare la cuccìa, un dolce di grano bollito e ricotta di pecora o crema di latte bianca o al cioccolato. Si narra che proprio in quel giorno, una nave carica di grano approdò a Palermo ponendo fine ad una terribile carestia. Da qui il carattere propiziatorio della cuccìa. In Lombardia, invece, si è soliti festeggiare con i «badì de dama», dolcetti di zucchero nati per attirare l’asinello di Santa Lucia che nella notte si sofferma davanti alle case lasciando doni in cambio. Ricca di gesti beneauguranti legati al cibo è la festa di San Giovanni (24 giugno). In quell’occasione è usanza mangiare le «lumache di San Giovanni» per eliminare le avversità (simbolizzate dalle corna degli animali) o raccogliere le noci (frutto portafortuna) ancora immature per preparare il «nocino».

Da non dimenticare, poi, le erbe di San Giovanni, un mazzolino di 9 specie diverse (artemisia, salvia, iperico, basilico, lavanda, felce, rosmarino, menta e prezzemolo) che avrebbe la proprietà di combattere le energie negative. In Abruzzo la fortuna arriva con le virtù un misto di legumi, verdure, odori, carni e pasta, legato alla tradizione del mondo contadino che, con l’arrivo della primavera, usava vuotare la madia e mischiare tutti gli avanzi dell’inverno con le primizie dei campi. Simbologia e cibo si mischiano in occasione della festa dei morti. Dalle «pitte collure» (focacce cotte al forno) di Catanzaro, agli «ossi da morti» (fave fatte di pastafrolla colorata), dai «pupi di zuccaro» siciliani agli «stinchetti dei morti» umbri. Su tutto trionfano le fave, in particolare nere, in cui, secondo la tradizione, sarebbero racchiuse le lacrime dei defunti.

E se in Trentino Alto Adige trionfa lo «Zelten» (dolce natalizio che viene tradizionalmente preparato da tutta la famiglia e mangiato dopo la messa di mezzanotte come gesto di ringraziamento) nelle campagne di Viterbo è usanza consumare, alla vigilia di Natale, la zuppa di ceci e castagne. E zuppe anche in Toscana con un’unica condizione: che non manchi il farro, legume che si dice rappresenti la potenza e veniva usato dagli antichi romani per preparare il libidum, focaccia da usare nei riti propiziatori.

 

fonte iltempo.ilsole24ore.com

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