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In Sicilia e nel Salento sono diffuse usanze denominate “Tavole di San Giuseppe”: la sera del 18 marzo le famiglie che intendono assolvere un voto o esprimere una particolare devozione al santo allestiscono in casa un tavolo su cui troneggia un’immagine del santo e sul quale vengono poste paste, verdure, pesci freschi, uova, dolci, frutta, vino. Sono poi invitati a mensa mendicanti, familiari e amici, tre bambini poveri rappresentanti la Santa Famiglia. Si riceve il cibo con devozione e spesso recitando preghiere, mentre tredici bambine con in testa una coroncina di fiori, dette “tredici verginelle”, cantano e recitano poesie in onore di san Giuseppe.Molto rinomate sono in Provincia di Enna, dove nel capoluogo, a Leonforte e a Valguarnera Caropepe vengono allestite in tutta la città grandi tavolate.
Talvolta è un intero quartiere a provvedere e allestire le tavole all’aperto. Alimento tradizionale di questa festa è la frittura, nota con il nome di “frittelle” a Firenze e a Roma, “zeppole” a Napoli e in Puglia, “sfincie” a Palermo. In alcune parti la festa è associata all’accensione di falò. In Canton Ticino sono tradizionali i “tortelli di San Giuseppe”.
Nella Val Trebbia nel cuore del territorio delle Quattro province si festeggia ancora oggi con la Festa di San Giuseppe il rito serale del Falò, che segna il passaggio dall’inverno alla primavera. Con il falò viene anche bruciato un fantoccio, la “vecchia”, che simboleggia l’inverno. Molti traggono auspici per la primavera prossima da come arde il fantoccio. Il rito risale all’antico popolo dei Liguri, in occasione del particolare momento astronomico dell’equinozio, poi la tradizione pagana si fuse con quella cristiana celtico-irlandese dei monaci di San Colombano, giunti in epoca longobarda. Un tempo in tutte le vallate ardevano migliaia di falò, che infiammavano di un tenue rossore le serate della zona, ora ardono ancora nei centri comunali con piccole sagre e canti. Un dolce tipico sono le frittelle di San Giuseppe (in dialetto farsò) che accompagnano la festa. A Bobbio la festa è una tradizione millenaria infatti furono i monaci irlandesi dell’Abbazia di San Colombano, fondata nel 614, a fondere il rito pagano con quello cristiano, nella luce che sconfigge le tenebre. Anche nel paese di Mormanno sono immemorabili le origini di questa tradizione che vuole che in tutti i quartieri siano accesi grossi falò in onore al Santo seguiti da musiche e balli tradizionali.
A Itri, in provincia di Latina, era uso fino a qualche anno fa che già due mesi prima della festa i ragazzi, spesso accompagnati da persone adulte, si recassero nei vicini boschi a tagliare piante di giovani lecci: lo scopo era di raccogliere quante più piante possibili per poter il giorno della festa accendere il fuoco più grande tra tutti i rioni del paese. Ancora oggi nel giorno di San Giuseppe, all’imbrunire, in tutto il paese si accendono decine e decine di falò nei pressi dei quali si organizzano feste con degustazione di prodotti tipici, tra cui le zeppole di San Giuseppe, fritte direttamente accanto ai fuochi. Anche a Mattinata in provincia di Foggia in occasione della festa di San Giuseppe fino a dieci anni fa si accendevano falò in tutti i rioni e dal 2000 viene acceso un unico grande falò sul sagrato della chiesa abbaziale di Santa Maria Della Luce, con un programma sia religioso sia civile, con fuochi pirotecnici, balli tradizionali canti e degustazione di prodotti tipici del territorio.
Anche a Serracapriola continua immutata negli anni la tradizione dei Falò di San Giuseppe. Ogni anno, ragazzi ed adulti, raccolgono dai campi i cosiddetti “ceppi” cioè i rami residui dalla potatura degli olivi secolari, per formare alte pire da accendere la sera della festività del Santo, i più temerari si cimentano nel “salto del falò” a testimoniare coraggio e sprezzo del pericolo.